di Tommaso Vianello
La redazione di Palle di Cuoio è felice di presentare un approfondimento sulla mitica figura di Paolo Poggi e il suo rapporto con Venezia e il Venezia Calcio. Gli articoli, che qui presenteremo in 3 parti, sono in realtà un flusso di coscienza ad opera di Tommaso Vianello che si definisce come “Lavoratore esternalizzato nella rete dei musei civici veneziani, coltiva la passione della scrittura (seguendo lo sport locale per il Gazzettino); ama il calcio nelle sue forme più genuine” ma che per me rimane semplicemente il capitano della Stella Rossa, quella squadra bellissima e umorale, che da quest’anno mi ospita nelle sue fila e che da quasi 10 anni ormai terrorizza i campionati amatoriali veneti.
TE LO GIURO, ABITA QUI
“Ciao- disse tra il perplesso e il sorpreso la signora alla porta, proseguendo poi con un educato- posso aiutarvi?”.
“Ehmmmmm, sì. Volevamo, ehmmmmm, cioè..”.
L’incoscienza tipica dei bimbi di 9 anni sfoggiata mezz’ora prima, quando sancimmo che suonare a quella porta dove ci avevano detto vivesse un calciatore professionista fosse un’idea brillante (il cognome sul campanello del resto combaciava), aveva fatto spazio alla timidezza, altrettanto tipica per quell’età specie davanti ad una persona sconosciuta; per quanto mi riguarda, ero ben consapevole del rischio di mutismo, tuttavia pensavo che il mio amico Stefano, molto più “faccia tosta” del sottoscritto, avrebbe saputo fare di meglio. E invece, entrambi muti e imbarazzati. Ci salvò, se i ricordi non ingannano, la figura maggiormente conosciuta (militava nella stessa società dove io e Stefano facevamo i “pulcini”) del fratello giovane di quel calciatore professionista, che sbucò alle spalle di colei la quale, evidentemente, era la mamma.
“Ecco..noi volevamo sapere..sì, cioè…qui vive Paolo Poggi?”.
Il sorriso della signora, e del fratello minore, ci tolse parzialmente dall’imbarazzo; ci spiegò che sì, Paolo viveva in quella casa, ma solo il lunedì (il giorno di riposo dei calciatori, una scoperta che ci giocammo con gli amici nei mesi a seguire), perché nel resto della settimana stava a Udine. La cosa aveva un senso, pensai: gioca all’Udinese, la signora non ci racconta frottole. L’autografo, dunque, era impossibile da avere, almeno per quel giorno di metà settimana. Però io e Stefano avevamo ciascuno un foglio bianco immacolato e sarebbe stato un peccato andare via lasciandolo così.
“Va bene, torniamo lunedì allora, grazie mille lo stesso. Intanto però, ci faresti tu un autografo?”, domandò Stefano con la sua faccia tosta al fratello del calciatore. Il quale, ovviamente, rispose divertito di sì e scarabocchiò i nostri fogli con una dedica.
Ecco, il mio primo autografo di un calciatore è del fratello minore di Poggi, Stefano pure lui come il mio amico, ruolo mezzala sinistra nel Venexia Calcio di metà anni Novanta, società dilettantistica di Prima Categoria. Fu probabilmente sull’uscio di quella porta, in un giovedì pomeriggio autunnale, che mi innamorai (o decisi di innamorarmi) definitivamente di quel giocatore di nome Paolo Poggi, che viveva come me a Sant’Elena a due passi dallo stadio Penzo e rappresentava i due pali perfetti dove stendere l’amaca per mettervi a cullare i miei sogni di bambino.
NON AVEVI DI MEGLIO?
Ok, posso capire le perplessità: di certo, se mai ci si dovesse innamorare di un calciatore, e se lo si debba fare in Italia negli anni Novanta, vi potrebbero essere decine (centinaia, forse?) di nomi maggiormente performanti, come va di moda dire ora. Perplessità in parte legittime, se non fosse che a) l’amore è irrazionale e b) comunque Paolo Poggi merita a mio avviso un posto di rispetto nella narrazione calcistica italiana, per fattori tecnici e non solo. Innanzitutto sia chiaro: discutendo di Poggi, non si parla certo di un piede sinistro banale, bensì, come spesso capita ai mancini, di un tocco educato e di una visione di gioco non comune. Veneziano doc, nato nel 1971, passato per alcune società minori sino alle giovanili degli arancioneroverdi e alla prima squadra, in cui fa il suo esordio in serie C1 a 17 anni (stagione 1989/90): el bocia de sant’eeena, data la giovane età, è il soprannome affibbiato affettuosamente dai tifosi, per i quali diventerà con il passare del tempo semplicemente Paolino. Con il Venezia disputa tre campionati, dal 1989 al ’92, l’ultimo dei quali in serie B.
I miei primi vaghi ricordi a lui legati risalgono proprio a questo periodo: dopo la promozione in serie B del 1990/91, il Venezia ha infatti spostato la sua “tana”, emigrando dallo stadio Baracca di Mestre (dove ha mosso i primi passi post fusione con Maurizio Zamparini alla presidenza) al PierLuigi Penzo di Sant’Elena e per me, appena trasferitomi a due passi dallo stadio sull’acqua, quella curiosa coincidenza funge da detonatore per far esplodere la passione verso il calcio. Abbonato con mio papà sin dal primo anno in cadetteria (1991/92), comincio a conoscere il gioco, i nomi, le maglie degli avversari, i cori, le offese all’arbitro, gli avvisi dall’altoparlante sempre uguali (“in caso di episodi violenti, anche se commessi fuori dallo stadio, saranno prese sanzioni a carico delle stesse società” è un mantra che tuttora ripeto spesso nei momenti di tensione), i vicini di posto e le loro manie, comprese quelle di mio padre che una volta su due si dimentica di consegnarmi l’accendino prima dell’ingresso, facendoselo puntualmente requisire e iniziando a inveire contro i regolamenti polizieschi (“E secondo lei, io verrei a tirare accendini con mio figlio a fianco?” la solita polemica domanda post sequestro dell’accendino). In panchina siede un non ancora famoso Alberto Zaccheroni, artefice della promozione in serie B; in campo, i nomi indelebili sono “il mitico” Bosaglia, “Ciccio” Romano, lo storico Filippini, Diego Bortoluzzi, Simonini (“Simonini alè alè”) e appunto Paolo Poggi, che saluta la laguna al termine della prima stagione in Cadetteria, conclusa con una salvezza sudatissima all’ultima giornata.
“GRAZIE DI ESSERE NATO”
Il campionato successivo approda nella massima serie agli ordini di mister Emiliano Mondonico, in un Torino ambizioso in cui il giovane Poggi trova ovviamente uno spazio relativo, con un attacco composto da giocatori maggiormente affermati come Casagrande, Aguileira, Silenzi.
Ciononostante, il suo passaggio in granata- dove rimane due anni- sarà tutt’altro che anonimo, ad iniziare proprio da quella sua prima stagione piemontese (1992/93). Gioca poco, come detto, ma quando gioca lo fa bene: non è raro sentire, tra i gradoni fatti di tubi innocenti dello stadio Penzo, il signore con la radiolina dire a quello senza radiolina che il Torino ha ripreso la partita solo dopo l’ingresso di Poggi (erano gli anni in cui serie A e serie B si giocavano entrambe la domenica pomeriggio, niente sabati e partite del mezzogiorno). Indiscrezioni confermate poi dalla visione successiva di 90° minuto, dove effettivamente sul buon Paolino da Sant’Elena il telecronista non lesinava incoraggianti aggettivi. Questo, ciò che ricordo personalmente e non sarebbe comunque poco per un ragazzo ventunenne catapultato per la prima volta fuori di casa nel massimo palcoscenico calcistico mondiale, com’era ancora la serie A in quel periodo.
Tuttavia, solo qualche anno dopo scoprii (grazie ai racconti, tra verità e leggenda, di un suo caro amico, edicolante dell’isola di Sant’Elena e mio primo “datore di lavoro”) che Paolo Poggi, a Torino, fece molto di più di qualche ottima apparizione, firmando in maniera indelebile la conquista della Coppa Italia edizione 1992/93, competizione che avendo visto l’eliminazione precoce del Venezia non suscitò, in me bambino, molto interesse. Paolino, in semifinale, siglò infatti due reti di ottima fattura nel doppio derby con la Juventus, uno all’andata e uno al ritorno (splendido specie quest’ultimo), fondamentali per far passare il turno e spalancare al Toro le porte della finalissima, poi vinta con la Roma. Qualche giorno dopo la fine di quel duplice derby contro i bianconeri (e qui sta la “chicca” confidata dall’edicolante Mauro) il giovane Poggi tornò nella sua casa torinese e sul muro vicino al portone lesse la scritta “GRAZIE DI ESSERE NATO”.
UDINE E L’UDINESE: DALLA SERIE B ALL’EUROPA
Dopo Torino, ecco Udine, stagione 1994/95. I bianconeri, retrocessi in serie B l’anno precedente, inseguono una rapida risalita nella massima categoria e puntano sul ventitreenne Paolo per raggiungere l’obiettivo; traguardo poi centrato, anche grazie alle 11 reti di Poggi, da subito apprezzato dalla tifoseria bianconera. La vera svolta nella carriera del nostro, tuttavia, si verifica nel campionato successivo, quello del ritorno in serie A che vede l’arrivo sulla panchina friulana di Alberto Zaccheroni, il quale incrocia così nuovamente la strada del giocatore dopo l’esperienza comune a Venezia. Il suo 4-3-3 sembra fatto su misura per Poggi, schierato largo a sinistra in un tridente composto inoltre dall’ariete tedesco Bierhoff e dal calabrese Marino: sfiora la doppia cifra, fermandosi a 9 reti, bottino niente male per la prima stagione da titolare in serie A, chiusa poi dai bianconeri al decimo posto. Soprattutto, Paolo si mette in mostra come ottimo partner di attacco, facendo risaltare le doti dei suoi compagni di reparto.
Quell’Udinese, pur meno affascinante di altre realtà minori (d’altro canto l’entusiasmo friulano non è famoso per essere coinvolgente), è comunque una bella pagina del nostro calcio e in quegli anni si ritaglia, a suon di gol e gioco offensivo, un ruolo di primo piano nella serie A. Al decimo posto del 95/96, segue il quinto della stagione successiva (chiuso con 13 reti dall’attaccante veneziano) e soprattutto la terza posizione del 1997/98 (10 gol): in quel campionato, il “tedescone” Bierhoff riesce a laurearsi capocannoniere del torneo e delle sue 27 reti, almeno una decina portano la firma di Poggi che con il suo sinistro piazza la sfera precisa-precisa dove il suo compagno di reparto deve “solo” spingerla in porta.
E se è vero che le copertine vengono riservate ad altri (Bierhoff, il danese Helveg, lo stesso Zaccheroni che nell’estate del 1998 approderà al Milan portandosi i due stranieri di cui sopra in rossonero), è altrettanto vero che il pubblico friulano ha ormai adottato Paolo come figlio e non sono pochi i club di tifosi che in quel periodo nascono prendendo il suo nome. Gli assist, le corse sulla fascia sinistra, infaticabili e generose, unite a quel suo modo onesto e coraggioso di stare in campo, fanno innamorare più delle semplici reti.
Nel campionato 1998/99, con Francesco Guidolin in panchina, l’Udinese ottiene un buon sesto posto; stavolta è il brasiliano Marcio Amoroso a diventare “pichici” della serie A e, anche in questa occasione, il contributo di Poggi è determinante, come può testimoniare ogni tifoso friulano di fine anni Novanta a cui avrete modo di chiedere eventualmente delucidazioni in merito. A Udine, il giocatore mostra il meglio del proprio repertorio a grandi livelli, chiudendo l’esperienza friulana dopo quattro stagioni e mezza, 50 gol e 233 presenze, numeri che tuttora gli permettono di stare nelle prime dieci posizioni in entrambe le classifiche nella storia del club bianconero.
CELO, CELO…MANCA!!
Oltretutto, bisogna pur dire che le copertine, o perlomeno una certa fama non solamente dovuta al calcio, Paolo Poggi riesce comunque a guadagnarsela in quegli anni, divenendo suo malgrado protagonista di una storia che ancor oggi tormenta i sogni di centinaia di bambini dell’epoca, i quali persero nel giro di pochi mesi innocenza e fiducia nel mondo.
Provando a sintetizzare: nel 1997, un’azienda di dolciumi decise di lanciare delle gomme da masticare. Nulla di rivoluzionario, se non fosse che le suddette gomme, pur mediocri nel gusto, avevano il non secondario pregio di essere incartate con una coppia di figurine di calciatori e che dal tabaccaio, assieme alle gomme, ti consegnavano pure l’album (non quello Panini, ma comunque un album) per fare la collezione: dei geni del marketing, insomma. Anche se malvagi come tutti i geni del marketing. Difatti, per impedire ai giovani ragazzini (i più, ormai, con la mascella fratturata a suon di masticare) di completare l’album ricevendo i premi promessi (eh sì, c’erano pure dei premi in palio), la marca di dolciumi optò deliberatamente per rendere introvabile una coppia di calciatori: quella di Sergio Volpi (all’epoca al Bari, poi passato pure lui per il Venezia) e di Paolo Poggi. Una truffa a regola d’arte, di cui ovviamente i due giocatori furono protagonisti inconsapevoli ed in certa parte vittime; mai quanto, però, i milioni di ragazzini a cui nel frattempo si era slogata la mandibola e, assieme a quella, la fiducia in un mondo senza malvagità.
Il fatto che quella figurina fosse introvabile, suggerì ovviamente al mio amico Stefano l’estremo tentativo; sapeva dove abitava Poggi, dopo il blitz a casa dei genitori dell’anno precedente (datato 1995 circa); aveva già l’autografo suo e anche del fratello; salutava addirittura la mamma per strada; si sentiva uno di famiglia ormai. Di fronte ai geni malvagi del marketing, però, pure le conoscenze e la faccia tosta di Stefano potevano poco: la figurina non c’era neppure a casa Poggi, bisognava continuare a comprare quelle maledette gomme da masticare per risolvere la questione una volta per tutte.