Il mio ruolo in campo: storia semiseria di un ritorno al calcio

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“Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più?”
Così cantava Battisti.

Così ho mormorato al ritorno su un campo di calcio a 11 dopo più di dieci anni.
“E come stai? Domanda inutile” – prosegue Battisti – “Stai come me, e ci scappa da ridere”

E infatti ridevo.

Ridevo di me con indosso gli scarpini Diadora n.10 di Roberto Baggio che a sua volta rideva di me, avendo smesso di giocare quindici anni fa. La mia ultima partita ad 11 in una squadra di calcio risaliva ai miei 17 anni quando giocavo con il Ripagrande. Da allora molte partite a calcetto – dove ho cullato il sogno di essere un Maradona incompreso – e tanto altro sport specialmante pugilato. Questo mi ha causato un’espulsione nell’unica partita giocata ad anni di distanza.

Eccesso di agonismo.

Non non mi sono mai considerato fuori forma e questa credenza e volontà di credenza – la will to believe di inzio ‘900 del filosofo americano William James – forse mi ha aiutato a mantenere sempre vivo quel sogno di un nuovo esordio e una carriera che, se a 10 anni pensavo potesse essere in Serie A, ora mi accontentavo benissimo in una serie amatoriale di provincia.

 

Troppa cultura – come diceva Kubrick nel suo Il bacio dell’assassino – uccide il puglitato, e nel mio caso sembrava essere vero.

Poi ho pensato ancora a Battisti e al suo incontro con un ex “Ma lasciarsi non è possibile” così armato di sogni ed equipaggiamento tecnico datato ho rimesso piede in campo.

La parte fisica e di preparazione non è stata tremenda. Corsa, corsa, corsa e ancora corsa. Dall’ultima posizione, che ricoprivo in veste di ultima ruota del carro, avevo potuto iniziare la mia indagine antropologica per capire quali fossero le dinamiche interne alla squadra.

Innanzitutto mi sono concentrato sugli apparescenti quelli con i preadator Nike e che conoscono tutti, ridono scherzano e si tirano le pallonate. Nella mia proiezione mentale loro occupano posizioni non centrali per la squadra, sono esterni, o seconde punte, sono comunque dediti al gol e questo gli garantisce rispetto.

Poi mi sono concentrato sui silenziosi, sono quelli che guidano il gruppo, normalmente sono i capitani in campo e sono tutti difensori.

In mezzo altre dodici persone da decifrare. C’è quello grosso come un armadio che potrebbe essere il numero 9, la punta centrale, ma questo farebbe presupporre che la mia nuova squadra giochi con un modulo superato da vent’anni e poi che ruolo avrebbero i due piccoletti?

Potrebbero essere esterni offensivi in un 3-4-3 alla Zeman?

Soprattutto che ruolo ha quello che ora ha interrotto la corsa per fumarsi una canna dietro la porta? Forse lui è l’amico di tutti, figura fondamentale per una squadra amatoriale che si basa su un gruppo di ragazzi che giocano insieme da otto anni. L’amico di tutti è il raccordo tra il campo e la realtà è quello che ricorda che l’agonismo e la tecnica servono ma che è anche importante farsi le canne con gli amici o bersi una birrretta. L’amico di tutti è quello che rutta il suo nome quando si perde, così, per tirare su il morale. A volte gli danno del coglione perchè esagera con le sue esternazioni gastriche ma comunque quando manca è il primo che viene chiamato al telefono per sapere se arriva, anche più tardi, anche a fine allenamento, anche solo per un saluto.

In questi nove giri di corsa, intanto, le idee si schiariscono, l’ossigeno arriva e il sangue pompa in zone insospettabili. Ed ecco che mi assale il terrore. La domanda che molti entografi sul campo si chiedono solo alla fine del loro lavoro.

Qual è il mio ruolo in campo?

Per i primi tre giri di campo mi ero cullato nella memoria del mio vecchio ruolo da esterno ispirato all’idolo assoluto Kekko Moriero funambolica ala destra di Cagliari, Roma e Inter. Correre sulla fascia, mi dicevo, correre e saltare l’uomo. Questo lo dovrei ancora saper fare. Poi mi ricordavo di quando facevo i 100 metri in tempi record, quindi si, direi che non mi devo preoccupare.

Beh non mi dovrei preoccupare se fossimo negli anni ’90.
Adesso le ali non esistono più.

Grazie Robben, grazie Ribery. Per colpa vostra, se adesso dico che sono un’ala si aspettano almeno quindici goal, dribling asfissianti e tiro da fuori a giro sotto l’incrocio. Perchè avete rivoluzionato un ruolo?

Kekko era diverso, con i suoi lunghi capelli ricci e il suo metro e settantre faceva quello che gli pareva. Se voleva dribblare, dribblava (andatevi a rivedere Piacenza-Inter stagione ’97/98), se voleva segnare in rovesciata, rovesciava (Neauchatel-Inter ’97/’98) se voleva coprire, copriva e se non voleva fare nulla non faceva nulla. Non c’era tattica ma voglia di stupire ed essendo lo stupore qualcosa di non programmatico, lui stupiva quando non se l’aspettava nessuno.

Robben e Ribery invece hanno rappresentato l’inzio della nuova generazione, quella che si allena con il conta battiti sotto la maglietta e che segue le zone di calore in campo.
No, non potevo essere io.

Purtroppo però, in uno slancio mnemonico alla Proust, all’odore del campo mi ero lanciato nella perentoria affermazione “Ala destra”. Più che Proust ero Fantozzi, il ragioner Ugo simbolo dello statalismo burocratico italiano degli anni ’70, che nel momento in cui viene portato in vacanza aziendale a Courmayeur per non essere da meno dei suoi colleghi affermò di essere stato “olimpionico di sci”. Alla fine si persero le sue traccie e di lui giunse al traguardo solo la borraccia da collo in stile San Bernardo..

In più la mia affermazione di spavalderia era “avvalorata” dalla maglia del Boca Juniors – la squadra di Maradona – che avevo pensato di mettere per quel primo allenamanto. Per smorzare il peso di quell’auto-investitura avevo pensato di spezzare il completo indossando i pantaloncini della squadra di terza categoria dove giocava mio cugino. Questo però non faceva altro che avvalorare l’idea che io sapessi quello che stavo facendo. In più la mia inseparabile ginocchiera dava l’idea di uno che si è fatto male al ginocchio – magari crociato – e questi sono “lussi” che capitano a gente come Marco van Basten. Luigi Piangerelli, storico capitano del Cesena, non si è mai rotto il crociato. Ronaldo si è operato almeno tre volte al ginocchio mentre Gaetano Vasari magnifica ala del Cagliari, della Samp e del Palermo neanche una.

Ormai la falsa e inconsapevole presentazione era fatta.

Così dopo un’ora e mezza di riscaldamento, possesso palla e stretching si arrivò al fatidico momento della partita.
Per me era come una lotta di affermazione e quando una voce disse “Tu allora giochi ala” capii subito che dalla lotta alla disfatta sarebbe passato poco tempo.

Dopo i primi cinque minuti a vuoto passati a guardare palloni che correvano imprendibili, decido di tornare in me. Segue lo sviluppo di un’azione sulla fascia opposta e corro dietro al loro attaccante. Il cross è veloce e supera il nostro centrale,  la palla arriva nella mia direzione. Sono attaccato al mio avversario come un cane idrofobo e lui non riesce neanche a saltare. Il cross si spegne in una innocua rimessa laterale. Uno dei silenziosi mi guarda e approva. Ho fatto la diagonale. Movimento geometrico psicologico oscuro a quasi tutti i terzini brasiliani. Sono stato utile, ho coperto uno spazio pur non avendo ancora toccato un pallone.

Sono forse un terzino?

No questo mai. Io mi sento speciale – colpa di mia madre che me lo ripete al telefono ancora oggi – e non posso ricoprire il ruolo che prima o poi capita a tutti i negati.

Il gioco ricomincia subito e io sono ancora alle prese con il posizionamanto del me calcistico ideale e idealizzato in un contesto di entrate a gamba tesa e uno-due fulminei. Non posso perdermi, anche se Kekko lo faceva di sicuro. Comunque arriva la prima palla, la stoppo. Mi sembra di avere tutto il tempo e invece uno degli apparariscenti mi ruba palle e mi dribla come se fossi una figura diafana. Tento una rincorsa ostinata ma più che tirargli la maglia non posso nulla.

Uno dei centrali silenziosi gli ruba il pallone e imposta il gioco, ovviamente, dall’altra parte.

Passano diversi minuti prima che il gioco ritorni a destra. Sono demoralizzato. Mi sento incapace di sostenere l’ideale di me stesso e soparttutto sto umiliando Kekko. Inizio a pensare a tutti quelle ali di carattere grinta e corsa che ora stanno pensando di ritornare sul campo e riprendere quei famosi scarpini al chiodo solo per redimere le loro gesta, quelle che io sto infangando.

Non posso continuare questa agonia mitologia, questa punizione dell’imtazione e del confronto.

Mi butto a centro campo, fanculo Kekko capirà. Devo prendere un pallone, anche sporco, anche di rimbalzo. Un pallone non mio, lo devo conquistare. Devo portare una testa del nemico al mio villaggio e la devo donare al capo. Il capo in questo rettangolo verde è il capitano, un ragazzo emigrato al nord che da centro campo dirige smista e insulta. È il trait d’union tra i silenziosi che detengono il potere senza volerlo esercitare e gli appariscenti che non hano il potere ma lo vorrebbero esercitare. Lui nella sua qualità di straniero diventa il delegato, il portavoce di una comunita politicamante coerente che decide di presentarsi al mondo con un’altra faccia e un altro dialetto. È lui che devo impressionare, è a lui che devo recapitare il pallone-testa.

Così vado.

Taglio il centro campo, lascio la posizione – come se qualcuno si fosse acorto che fino a quel momento ne avevo una – e vado sul centrocampista avversario. Nessuno mi ha notato, non sono abituati alla mia presenza quindi gli piombo addosso e gli strappo il pallone. Cado mi rialzo e consegno la testa al capitano. Lui non dice nulla, del resto vede almeno cinquanta teste solo nel primo tempo.

Ho il cuore in gola e l’emozione dei 15 anni. Torno nella mia porzione di campo ma ormai è chiaro nella mia testa che il centro del campo sarà il mio luogo di scalpi.

La partita poi prosegue con una serie di dribbling falliti e vani triangoli in velocità. Qualcuno mi dirà anche “Credevo fossi più veloce”. Colpa della maglia del Boca che genera aspettive funamboliche.

Ma non importa.
Adesso so cosa non sono. Un’ala

Il processo di ridefinizione del ruolo è appena iniziato.