L’orda d’oro inglese. I nuovi talenti di un calcio in evoluzione. (Introduzione)

C’è un’aria nuova in Inghilterra che neanche una pandemia globale potrà portare via. Si respira un qualcosa di diverso. Sta rinascendo un gioco e una narrazione. Ci stiamo preparando ad un’orda d’oro. Storicamente il termine orda d’oro deriva dal tataro Sirti Ordo “campo giallo” o Āltin Ordo “campo aureo” e rappresentava il regno (khanato) tataromongolo che fu in grado, all’inizio del XIII secolo di sottomettere l’intera Russia ad eccezione di Novgorod che riconobbe la supremazia del khan. Con il termine orda si indica spesso un qualcosa di nomade, di travolgente nel senso di invasivo e violento. L’orda però rappresenta una spinta, una fiammata. Non è un caso, infatti, se la generazione del ’68 venne chiamata da Nanni Balestrini e Primo Moroni, proprio, orda d’oro.

Questa orda d’ora è rappresentata da una generazione di giovani calciatori che stanno iniziando ad affermarsi nello squadre di club o che ne sono addirittura diventati capitani o giovani simboli. Del resto è proprio la simbolicità quello che unisce questa nuova generazione a quella della vecchia scuola degli anni ’90.

A livello metodologico la vecchia scuola inglese, per come tendo qui a definirla e limitarla cronologicamente, è quella degli anni ’90 che raggiunse il suo picco più alto con la semifinale di Euro ’96 persa ai rigori contro la Germania. In quella nazionale e soprattutto nella Premier di quegli anni c’erano giocatori come Steve McManaman, Jamie Redknapp, Alan Sherear, Teddy Sheringham, Phil Neville, Tony Adams, David Seaman e Gazza Gascoigne. Questa vecchia scuola – ovviamente alla lista si possono aggiungere altri nomi ma si correrebbe il rischio di iniziare praticamente un nuovo argomento – aveva un qualcosa che andava oltre il rettangolo di gioco. Erano iconici. Icone di un’Inghilterra che in quel momento era un incredibile centro propulsore creativo riuscendo a sfornare contemporaneamente in ambito musicale, Blur, Oasis e Verve senza tralasciare una nuova ondata rave e industrial. Nel 1995 l’artista Damien Hisrt vince il Turner Prize sancendo così la fama della cosiddetta YBAs (Young British Artists). Nel 1996 esce nelle sale Trainspostting.

La nazionale inglese come icona. Euro ’96: In alto a partire da sn: Ince,Anderton,Southgate, McManaman, Seaman, Shearer. in basso a partire da sn: Gascoigne, Neville, Adam, Pierce

C’era un fascino indescrivibile in ogni gesto e ogni partita. In un decennio dominato dallo United di Sir.Ferguson assistiamo a due “miracoli” – o per meglio dire, adesso ci sembrano tali ma la Premier ha sempre prediletto una certa alternanza – che vedono trionfare il Leeds di Vinnie Jones ed Eric Cantona (1992) e poi il Blackburn Rovers di Chris Sutton, Alan Sherear e Colin Hendry (1995). Ogni giocatore aveva una sua storia e ogni stadio una sua mitologia. Si respirava unicità e un’insana follia ad ogni partita. Gascoigne era l’esempio perfetto della vita da equilibrista tra l’auto distruzione e il professionismo. Matt Le Tissier ha riscritto il copione del “bravo ma non s’impegna” trasformando la discontinuità in un talento e la fedeltà alla maglia nel valore valore aggiunto. Robby Fowler, dopo un goal, sniffò, la linea di fondo.

Matt Le Tissier, una vita al Southampton (1985-2002)

Per nuova scuola inglese intendo invece la generazione dei classe ’98-99-2000-01 ragazzi che non erano nella nazionale che nel 2018 arrivò in semifinale ai mondiali russi ma che allo stesso tempo rappresentano l’apice della generazione di Jeese Lingard (1992) ed Harry Kane (1993). Questi ragazzi sono nati con nuovi paradigmi calcistici. Il modello per gli attaccanti non era più Alan Sherear ma Messi oppure un Iniesta molto avanzato. Il terzino non era Gary Neville ma Dani Alves o Marcelo così come il gioco non era più fatto di sole ripartenza e falli spacca gambe ma di geometrie ragionate. L’allenatore di riferimento non era Alex Ferguson ma Pep Guardiola.

Tra questo due generazioni non è che l’Inghilterra non abbia prodotto nulla….Frank Lampard, Steve Gerrard e Micheal Owen. Beckham lo considero un figlio di fine ’90 anche la sua fama è tutta dei 2000. Quello che è mancato a questi giocatori è stata l’iconicità per niente aiutati, questo va loro riconosciuto, da una Premier megalomane, accentratrice e industrializzata. Nel caso di Lampard e Gerrard, due che hanno vinto la Champions League e sono sempre stati al top nei loro rispettivi ruoli, il discorso è emblematico. Sono stati giocatori favolosi con una dedizione alla maglia commovente ma erano entrambi giocatori da “maglia nei pantaloncini”. Sono stati professionisti ammirevoli, a mio avviso, fin troppo. A parte qualche sbornia sono stati un modello d’integrità in un campionato che non ne ha saputo cogliere la bellezza della normalità. Tra qualche anno la loro immagine sarà rivalutata anche fuori dal campo ma al momento risentono dell’aver giocato in un momento calcistico piatto.

I successivi articoli saranno pertanto dedicati ai singoli giocatori che incarnano questo nuovo momento/movimento. L’orda d’oro è in cammino.

Nota. Nonostante i termini simbolo e icona abbiano significati diversi tanto nella semiotica quanto nella filologia classica, in questo testo mi affido al buon senso comune del lettore di calcio altrimenti scrivevo in una rivista scientifica dove comunque avrei dovuto fare una nota per spiegare chi è Colin Hendry.